Liliana Cavani, leonessa del cinema italiano che sa sempre graffiare con i sentimenti
Da «Francesco d’Assisi» a «Francesco», il filo conduttore della fede. E la storia come amica
Vienna, 1957. Il cielo è plumbeo. La notte gelida e oscura. Una giovane donna slanciata, ossuta, elegante, affascinante, ritrova per puro caso un uomo che mai più avrebbe dovuto e voluto vedere. L’uomo è stato il suo carnefice. Lucia, ebrea sopravvissuta al campo di concentramento, ritrova davanti a sé il torturatore Maximilian. L’uomo fugge dal passato, nascondendosi dietro una falsa identità. È restato quello che era un tempo: convinto nazionalsocialista. Da Lucia ci si aspetterebbe un gesto di vendetta. Invece, inaspettatamente, intreccia con lui una relazione sadomasochista. L’hotel di Vienna è una metafora del dopoguerra: il passato sembra non voler passare mai. E le vittime di un tempo non riescono a liberarsi in maniera definitiva dei propri carnefici.
Abbiamo raccontato l’inizio de Il portiere di notte, girato da Liliana Cavani nel 1974. È uno dei film più importanti del cinema mondiale della seconda metà del Novecento. Maximilian è interpretato da Dirk Bogarde. Lucia da Charlotte Rampling. Quest’ultima è davvero sublime. Un suo fotogramma rappresenta ancora oggi un’icona perturbante. Ma chi è la regista – in occasione del novantesimo compleanno – che giustamente la Mostra di Venezia intende celebrare con l’assegnazione del Leone d’oro alla carriera? Liliana Cavani è nata a Carpi nel 1933. Si laurea a Bologna in lettere classiche. Quindi è un’umanista. Si sposta a Roma, per diplomarsi al Centro sperimentale di cinematografia. Vince il concorso in Rai. Diventa una documentarista. A lei si devono molti lavori eccellenti, fra i quali spicca la ricostruzione della storia del Terzo Reich. Nel 1966 debutta nella cinematografia con Francesco d’Assisi. Il «poverello» ha il volto di Lou Castel.
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